Permetteteci questo piccolo divertissement, che ha il valore di una provocazione.
Da che mondo è mondo, la Sicilia è sempre stata terra di conquista. E i conquistatori che l’hanno fatta propria hanno sì preso, ma anche dato. E molto. O forse ci hanno dato proprio tutto, visto che – non appena mettevano piede sull’Isola più bella del mondo – la volontà di potenza insita nel rapimento cedeva subito il passo ad un sentimento diverso, ossia di custodia. In che senso?
Nel senso che se la Sicilia è la Sicilia, non lo dobbiamo mica ai Siciliani, che l’hanno valorizzata con colate di cemento abusivo e osceni palazzi costruiti ai tempi della Legge “Ponte”. No: l’immagine della Sicilia che conosciamo noi altro non è che proiezione della Sicilia fatta propria da chi è venuto da fuori.
Che s’è subito innamorato della sua conquista: Sicilia capta ferum victorem coepit.
Procediamo a grandi balzi.
I Romani ne fecero granaio dell’Impero, ma Cicerone la difese contro Verre. Poi vennero i Bizantini e dopo questi gli Arabi, che l’arricchirono di gelsomini, gebbie e senie. Le cube che sovrastano le Chiese di Palermo, simili alle moschee infuocate che nel buio dell’inferno descrivono la skyline della Città di Dite, sono state innalzate cantando Fogh el Nakhal piuttosto che Vitti na crozza.
Dei Normanni, manco a parlarne.
Gli Svevi, poi, obbligati da “quell’istinto che li porta verso l’assolato meridione” (cito, se la memoria non mi inganna, Shuzo Kuki: “La struttura dell’Iki“), di Palermo ne fecero Capitale: e Federico II volle legarsi sì tanto a questa terra che qui decise di orvicarsi. Questo, insomma, per parlare en passant degli inizi.
Se poi vogliamo schiacciare il pulsante forward della Storia e andare un po’ avanti, catapultiamoci nel settecento. Anche lì, onestamente: era la Jeunesse Dorée europea, impegnata nei Grand Tour, ad attribuire il giusto valore a ruderi ormai sconsacrati, utilizzati tuttavia dai siciliani come mannare.
Ed è un tedesco, Goethe, a sigillare la nostra bellezza con una frase ormai ridotta a reclame: l’Italia senza la Sicilia non lascia nello spirito immagine alcuna. E’ in Sicilia che si trova la chiave di tutto”.
Ed è sempre un tedesco, il Barone Von Gloeden, fotografo con velleità da classicista, a rivedere negli efebi taorminesi i pastori dell’Arcadia perduta. Girano l’Europa i suoi scatti e l’Europa volge la sua attenzione alla Sicilia. Assieme a lui, sempre un altro Barone tedesco: Otto Von Geleng, che guarda ai carrubbi per ridisegnare l’immagine di un paradiso bucolico ancora vergine rispetto ad un progresso fatto di carbone e vapore.
Ivi, a Taormina, Donna Florence Trevelyan vi ospita Edoardo VII: la Sicilia, grazie a gente venuta da fuori, diviene ancora una volta place to be.
Le nostre sponde, invece, di tedeschi ne vedono pochi: solo un tale dal nome inquietante ma con un cuore intrepido, Joseph Fuhrer, decide di mappare le catacombe siciliane, tra cui le nostre.
Pochi tedeschi, dicevamo, ma tanti inglesi.
E il vino cui diamo il nome della nostra Città lo dobbiamo a quel Woodhouse da cui gemmarono i vari Ingham e Whitaker. Ci avevano cunzato a tavola, questi inglesi, per mangiare col business del vino noi, i nostri nipoti e i nipoti dei nostri nipoti. E invece abbiamo dilapidato tutto mescendo porcherie alla mandorla, alla banana, all’uovo, al caffé. Il nostro Marsala, grazie ad una sicilianissima imprenditoria da rapina, passa dall’essere vino d’elite ad un qualcosa più simile alla Coca-Cola.
Eccolo un altro inglese, Pip Whitaker: che compra l’Isola di Mozia, scava e caccia fuori i resti di una civiltà (venuta da fuori, ça va sans dire) forse più opulenta della stessa Roma repubblicana. Un inglese, non un siciliano. I Siciliani, al massimo, a Mozia ci nzitavano i zucchi.
Unica rondine (che non fa, purtroppo, primavera): la nostra famiglia reale, i Florio.
Al netto di pochi isolani consapevoli, la nostra Sicilia è stata sempre valorizzata dagli estranei.
Non poteva avere figli più ingrati, quest’isola. E’ una colpa cosciente? Probabilmente non lo sapremo mai. “Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il la”, spiega ad uno sbigottito Chevalley il Principe Salina.
O forse siamo solo rincoglioniti da una troppa bellezza che c’ha fatto le cataratte agli occhi e non consente più di renderci conto di quel che abbiamo sotto i piedi.
Dite che è scandaloso che una Lega ancora troppo Nord ottenga l’assessorato a tutela dei beni culturali e dell’identità siciliana? Ma se è sempre stata la gente del nord a valorizzarci.
Anzi, di più: la nostra identità e la nostra estetica sono state letteralmente plasmate e “pubblicizzate” da tedeschi e inglesi. Gente del nord, cui qualche scarso e supirbiuso rinfaccia un passato barbarico. Soprassedendo, però, su un presente ben più vandalico: sono i turisti del continente a meravigliarsi delle spiagge distrutte dall’abusivismo. Sono i turisti del continente a scandalizzarsi della sporcizia che ricopre le necropoli sparse tra una via e l’altra di Marsala.
E i Siciliani? Probabilmente dormivano, di fronte allo scempio che si consumava nella Valle dei Templi di Agrigento.
E dov’erano, i Siciliani, quando quella calamità che di nome fece “Vito” e di cognome “Ciancimino” deturpava il volto di Palermo?
No. I Siciliani non meritano quest’assessorato. Qualche Siciliano sì – come Tusa – ma non i Siciliani nel loro complesso. Tutta la storia recente denuncia una realtà di per sé evidente: dare in mano i beni culturali ai Siciliani equivale, come direbbero a Napoli, ad affidare a pucchiacc mmane ‘e criature.
O forse avete ragione. Questa Lega non è abbastanza Nord per meritare un simile assessorato. Che, anzi, va affidato a gente di ben più alte latitudini. Che non parla l’italiano.
Riccardo Rubino