Quid est veritas? Una domanda, da Pilato in poi, rimasta sospesa nel fluire dei secoli e dei millenni della storia umana. Questione capitale della gnoseologia antica, la ricerca della verità è stata fonte di binomi lessicali e cognitivi: da una
parte la ‘doxa’, dall’altra il ‘logos’, l’opinione contro la ragione e la ‘parola vera’. Dilemmi non solo da sofisti, approdati alla modernità, maestra di relativismi e di negazionismi: questo è il tempo della post-verità – sostengono i pensatori più ‘à la
page’, con buona pace degli esploratori più indefessi del vero. E tuttavia la verità mantiene una sua forza intrinseca e un suo innegabile potere di attrazione. Forse perché le sue radici più profonde si intrecciano con quelle dell’identità, di
individui e di popoli. Dunque la verità, in modo particolare quella storica, va cercata, sempre. D’altra parte la verità storica ha, senza dubbio, dei vantaggi rispetto a quella filosofica, perché si lega semplicemente ed empiricamente ai fatti.
Uno dei maestri del positivismo tedesco, Leopold von Ranke, trovò una sublime sintesi nel definire ‘vero’ ciò che ‘è realmente accaduto’, così ‘come è realmente accaduto’: ‘wie es eigentlich geschehen’.
La storia italiana degli ultimi decenni (e non solo quella) è intessuta di misteri e, dunque, di segreti, di arcani, di nascondimenti della verità. Stragi, attentati, violenze sono rimasti spesso senza spiegazione. Come molte morti
‘sospette’, da alcuni considerate ‘opportune’. Spesso hanno riguardato membri delle Forze dell’Ordine, vertici dei Carabinieri, della Polizia, della Guardia di Finanza, dell’Esercito, dei Servizi segreti. Trame spesso oscure, dinamiche
sfuggenti, conflitti inconfessabili. Non c’è bisogno di soggiacere al complottismo per riconoscere l’evidenza, anzi la mancanza di evidenza, della nostra più recente storia nazionale. Ciò che continua a mancare nella narrazione e nella
ricostruzione del nostro passato è, dunque, proprio quel ‘wie es eigentlich geschehen’ di rankiana memoria. In altri termini, la verità dei fatti.
Si interroga sui casi più famosi di ‘morti sospette’ l’ultimo libro di Alberto Di Pisa: “Morti opportune”. Ex-magistrato, Di Pisa nel 1971 è stato Pretore a Castelvetrano e poi a Palermo. Sostituto Procuratore della Repubblica al Tribunale del capoluogo siciliano, dal 1982 ha fatto parte del Pool antimafia, ideato da Rocco Chinnici, ed è stato tra i giudici che istruirono il maxiprocesso di Palermo. È stato anche Procuratore generale aggiunto a Palermo e prezioso collaboratore del Vomere.
E’ curioso ma non casuale che la Casa editrice del libro di Alberto Di Pisa, si chiami ‘L’identità di Clio’, che è anche il titolo del periodico on-line nato nel 2016 cui l’autore collabora. I conti tornano: Di Pisa continua a cercare la verità. La
verità è fondamento dell’identità. L’identità è fondamento della storia di cui Clio, nella mitologia greca, era la Musa.
Nel suo libro si parla di casi archiviati come suicidi, incidenti stradali, infarti improvvisi. Si parla del Maresciallo Alberto Dettori, del Generale dei Carabinieri Enrico Mino, del Colonnello Mario Ferraro, dell’agente del Sismi Vincenzo Li Causi, dell’Ufficiale della Marina militare Natale De Grazia, di Enrico Mattei e del giornalista Mauro De Mauro e di molte altre morti sospette. L’insegnamento che ne deriva, alla fine, e che percorre come un filo conduttore il libro, sta tutto nella
necessità, anzi nel dovere di continuare a porsi e a porre domande.
Perché molto spesso, come scoprirono tutti coloro (compreso, si dice, Agostino D’Ippona) che cominciarono a giocare con le lettere del famoso quesito di Pilato rivolto a Gesù, ‘Quid est veritas?’, la verità – prima che nelle risposte – si trova
proprio nelle domande: ‘Est Vir qui adest’: ‘è l’Uomo che è davanti a te’.
F.S.