Ha il sapore del mito e l’energia primigenia di un ethos incorrotto, forte della sua storia millenaria, il libro più recente di Naldo Anselmi dedicato al mondo contadino del secondo dopoguerra: un racconto intenso, appassionato e fedele, come è nello stile dell’autore, cui fa da sfondo un universo di valori duramente messi alla prova, eppure mai sconfitti dall’irrompere della modernità. “Vita contadina nel secondo dopoguerra” (Magalini Editrice Due) nasce da un desiderio di testimonianza: quella del ricordo di una cultura e di una civiltà sostituite dalla “società di massa, con prepotenti forme di innovazioni che sono andate a rivoluzionare gli antichi costumi, a travolgere tradizioni e atteggiamenti, – scrive Anselmi – a modificare le sfere dei rapporti umani, soppiantati da una cultura ipertecnologica, refrattaria alla memoria”.
Per impostazione e contenuti il libro richiama alla mente una delle maggiori opere del cinema italiano, “L’Albero degli Zoccoli” di Ermanno Olmi, scrivono nella Prefazione Stefano Ubertini, Rettore dell’Università degli Studi della Tuscia e
Alvaro Marucci, Vicerettore dello stesso ateneo: “Come Olmi nel film, Anselmi rappresenta il mondo contadino tradizionale con una assoluta fedeltà storica”.
Il contesto è quello locale, ma al tempo stesso universale e archetipico, di un borgo medievale dell’alto orvietano, Ficulle, protetto dalle sue antiche mura e immerso in un paesaggio collinare di intatta bellezza: vigneti e uliveti si alternano a
calanchi, con intervalli di boschi verdeggianti che assicurano una perfetta armonia fra il mondo maestoso della natura e quello dell’uomo. In queste dolci valli fluviali digradanti verso i confini di Umbria, Lazio e Toscana, solo apparentemente
alla periferia della storia, si snodano le opere e i giorni di comunità rurali cementate dalla rigida gerarchia della conduzione mezzadrile della terra e dalla solidarietà profonda di chi si trova a condividere lo stesso destino.
Sono gli anni Cinquanta di un’Italia ancora contadina, racchiusi in un’istantanea che ferma il tempo e inquadra i luoghi, i volti e le emozioni. La luce è quella vacillante del focolare e della lampada a petrolio appesa al soffitto di una casa
colonica. Intorno si distendono le superfici dei poderi, unità di misura dello spazio e della vita.
Anselmi racconta lo straordinario nascosto nell’ordinario: dal fluire sempre uguale dei giorni nasce l’eterno ritorno dei frutti della terra, dalla povertà degli uomini la ricchezza di rapporti sofferti ma autentici, dall’immanenza la trascendenza.
Di lì a poco l’esodo rurale e il boom economico trasformeranno, non solo in Italia, i caratteri e i paesaggi. Nell’arco di un trentennio metà della popolazione abbandonerà i poderi attratta dai bagliori della civiltà industriale. Ma la narrazione di Anselmi, vicina in alcune pagine al respiro dell’epica, non è mai refrattaria alla concretezza della documentazione e alla cura del dettaglio. La “grande storia” si scrive anche nelle campagne umbre, attraverso le rivendicazioni e le lotte dei mezzadri che portarono nel 1964 a una revisione dei contratti agrari con un nuovo riparto al 58% della quota riservata ai coloni. Semplicità, coraggio, spirito di sacrificio, ingegnosità, attaccamento al lavoro, idealismo: sono i tratti distintivi della mentalità contadina. Poi si distendono le ombre: le superstizioni, il cinismo e gli altri vizi piccoli e grandi di tutta l’umanità.
C’è, nel libro, un’attenzione appassionata e nostalgica rivolta ad un mondo di cui si descrive la scomparsa. Ficulle è al tempo stesso un punto della geografia e un luogo dell’anima, rappresentazione viva di una comunità rurale fiera della sua
identità, e proiezione quasi lirica di un amore apertamente dichiarato. A questa terra dolce e difficile, carica di storia e di bellezza, di energia estetica ed etica, Anselmi aveva già dedicato la sua autobiografia: “Una favola che si fa vita. Dai
campi al campus”, narrazione altrettanto intima e trasparente capace di utilizzare la scrittura come riflesso puro della memoria, senza cesure e senza censure. Ma stavolta al centro del racconto non c’è il percorso di formazione e di
emancipazione di un uomo. A dominare sono invece la presenza e la potenza della natura e il suo rapporto con chi la abita, l’alfabeto, la grammatica e la semantica di una relazione ancestrale intessuta di simboli.
A un’umanità post-moderna che pratica quotidianamente la smitizzazione e vive di disincanto relegando il sacro a
categoria residuale della propria visione del mondo, Anselmi ricorda che è esistito un tempo in cui la vita era ancora rito, e
ogni atto compiuto per la natura e con la natura era cerimonia collettiva, esperienza in grado di trascendere l’individualità.
Alle società contemporanee che hanno deciso di recidere i propri legami con il passato abbracciando le parole d’ordine di un’omologante e massificante globalizzazione, l’autore propone un diverso modello di esistenza e convivenza, quello di un’Italia contadina da riscoprire, in cui gli uomini riconoscevano gli alberi del proprio podere e l’importanza di essere comunità.
“Senza le nostre radici saremmo persone senz’anima. – conclude l’autore – Se ci siamo allontanati da esse, dobbiamo
recuperarle, conservarle, trasferirle alle generazioni future. Sono valori spirituali, morali e culturali che ci fanno sentire
partecipi della storia”.
FEDERICA SBRANA