L’autolesionismo nei ragazzini. Un fenomeno inquietante. Cosa c’è dietro l’attrazione per i “tagli”? E quale può essere il ruolo più consono degli adulti, dei genitori?

L’autolesionismo nei ragazzini. Un fenomeno inquietante. Cosa c’è dietro l’attrazione per i “tagli”?  E quale può essere il ruolo più consono degli adulti, dei genitori?

Da qualche tempo, un fenomeno inquietante inonda le vite dei ragazzini. Si tratta del sentito, e risentito
ormai, fenomeno dell’AUTOLESIONISMO, tipico indicatore clinico di diversi disturbi psichiatrici, che nei
giovanissimi, però, assume altri significati, non per questo, però, meno preoccupanti.
Dal greco autos- laedo, letteralmente “danneggiare se stessi”, si tratta di un atto che consiste nel procurarsi
intenzionalmente danni fisici rivolti alla propria persona. Il dolore può corrispondere al taglio superficiale,
specie nelle zone interne dei polsi e del braccio, ma può anche comprendere gesti più significativi, quali
bruciarsi, infliggersi graffi, tirarsi i capelli, ingerire sostanze tossiche o non commestibili.
L’autolesionismo nei giovani corrisponde più frequentemente a “ferite autoinflitte”. Generalmente chi
pratica autolesionismo può farlo per attirare l’attenzione su di sé, come forma di comunicazione, una
richiesta di aiuto, ma può essere anche un modo per alleviare un dolore emotivo, indicibile ed ingestibile, o
ancora una maniera per punire se stessi.
Gli studi indicano che i casi di autolesionismo tra i giovani, dai 12 ai 24 anni, potrebbero corrispondere al
33%; sembrerebbe che la percentuale più alta associata al genere femminile non sia provata e potrebbe
dipendere dal fatto che le femmine, più dei maschi, verbalizzano maggiormente i tentativi o gli atti inflitti.
Viste le diverse consulenze giuntemi da genitori, insegnanti, familiari e ragazzini stessi, ritengo molto
importante approfondire, in questa sede, come mai un fenomeno apparentemente così lontano e diverso dallo
scorrere delle vite di precoci giovani ragazzini, appena undicenni-dodicenni, penetri, invece, il loro mondo, il
loro linguaggio e la loro cultura in fasce. Gesti del genere sono, infatti, segni di una fragilità che sommerge,
non solo i singoli ragazzini, ma un’intera generazione. Una generazione, figlia di una società narcisistica,
veloce e spesso poco propensa al dialogo profondo ed all’ascolto…
Potrebbero essere proprio queste le radici del percorso condotto dal povero bimbo undicenne napoletano,
precipitato volutamente, qualche giorno addietro, dal decimo piano del suo appartamento. Sono così intense
ed “in contrastanti”, infatti, le correnti e le influenze dei social e dei gruppi di coetanei dal vivo, che i
ragazzini, da soli, difficilmente risultano ben equipaggiati; per la giovane età, per l’assenza della possibilità
di elaborare ragionamenti che superino la voce degli altri; perché a quell’età si è in preda ad un subbuglio di
cambiamenti ormonali, psico-sociali, identitari, che li rendono naturalmente, e maggiormente, bisognosi di
risposte, riferimenti, informazioni che vadano oltre i semplici e sterili giudizi dall’alto, da parte degli adulti;
commenti veloci, comodi, che non consentono, però, un vero contatto con ciò che sta accadendo dentro se
stessi.

Cosa c’è, dunque, dietro l’attrazione per i “tagli,” così come li chiamano gli stessi ragazzini? E quale,
soprattutto, può essere il ruolo più consono degli adulti, dei genitori, che si ritrovano a sentire i propri
figli parlare di questi argomenti o, ancora peggio, venire a conoscenza dei tentativi forzati dei figli di
provare a tagliarsi?
Al di là del riconoscimento di una multicausalità che può originare il desiderio ed il bisogno di arrecarsi delle
ferite, i ragazzini e le ragazzine di quell’età si trovano in un momento di forte vulnerabilità personale:
sentono di non essere più dei bambini; aumentano le pressioni dall’esterno, da parte dei coetanei, della
scuola, dei genitori: tutto comunica loro che si DEVE e si sta diventando più grandi. E c’è molta fretta
perché tutto va molto veloce. Un figlio a quell’età ha più bisogno di prima di certezze affettive, di sapere
che, nonostante faccia un passo in più lontano da casa, se si volta sente, comunque, un senso di
rassicurazione.
Nello stesso tempo, le famiglie percepiscono in differita queste pressioni e, non sempre, sono in grado di
sintonizzarsi con i nuovi bisogni dei figli. In più, genitori, insegnanti, educatori sono di fretta e, spesso,
manca il tempo di potersi dedicare all’ascolto delle paure più recondite dei più piccoli: spesso si pranza e
cena di fretta perché bisogna subito correre al lavoro, al doposcuola, alla lezione sportiva oppure bisogna
uscire a sbrigare le faccende, o andare a letto perché l’indomani è un altro giorno lavorativo. In più l’adulto
di oggi è anch’esso un adulto fragile, perché oberato di cose da fare, perché più solo, perché in preda alle
prevedibili preoccupazioni lavorative, familiari.
In una società sì fatta, viene meno il supporto delle famiglie allargate e del tempo di inerzia, o “tempo senza
tempo”, in cui ci si sedeva insieme, parlando degli argomenti più disparati. Dai discorsi fatti nel “tempo
senza tempo”, una volta, i bambini apprendevano soluzioni, informazioni, interiorizzavano un senso di
supporto alle proprie preoccupazioni, sentendosi più contenuti e più protetti.
Oggi obiettivamente tutto questo è più raro, meno frequente, togliendo un grande senso di sicurezza ai più
piccoli. E un adulto fragile è un adulto che nega e non sa vedere i problemi dei figli, percependosi poco
capace di potere fornire un valido aiuto. Vi è un normale senso di disistima che si innesca, di insicurezza, che
necessita di un supporto.
In alcuni casi, allora, un gruppo di coetanei che mette in atto comportamenti emergenti ed eccessivi,
come i tagli auto inflitti, acquisisce un’identità più definita, ottenendo maggiore riconoscimento agli
occhi degli altri. Ed allora può accadere che riconoscersi in questi gruppi potrebbe far sentire
maggiormente accettati, riducendo l’ansia ed il senso di non valere, di non esistere, che molti ragazzini
sperimentato uscendo da casa e non sapendo come comportarsi.
Ovviamente questa non può essere la soluzione. Si tratta solo di un modo non buono che i più piccoli
trovano, da soli, per alleviare un senso di irrequietezza, a volte un malessere, che deve essere sostituito da
meccanismi più benevoli e sani per loro. A questo punto il dialogo con i figli, valorizzare “i tempi senza
tempo”, stare a tavola senza smartphone, senza tv, senza altri intermezzi palliativi; fare delle passeggiate
insieme a loro, dialogare, ascoltare cosa accade nelle ore fuori casa, rassicurare, fornire loro informazioni e
significati a ciò che sta accadendo, diventano potenti fattori di protezione. Così come in classe, o nei gruppi
ricreativi pomeridiani, dovrebbe essere basilare ritagliarsi dei momenti di dialogo emotivo, in cui i ragazzini
possano parlare insieme fra loro, e con adulti di riferimento, anche di questi fenomeni, sentendosi così meno
soli e più consapevoli di ciò che sta loro accadendo.
D’altronde, gli strumenti più importanti che un adulto può donare ai più piccoli per una crescita sana ed
equilibrata sono universali: Coerenza, Informazione ed Ascolto.

Dott.ssa Silvia Spanò
Psicologa giuridica-Psicoterapeuta