di Riccardo Rubino
Questa notizia, che non si sa nemmeno se sia fondata o meno, impone una serie di riflessioni sulla natura di questo corso di studi che ho avuto la somma fortuna di frequentare.
Anzi, aggiungo: per ogni maledizione lanciata dal sottoscritto su un aoristo*, per ogni diottria persa sul Rocci**, oggi corrisponde una benedizione ed una gratitudine.
Sì: benedizione. Se non sono l’ultimo dei cretini d’Italia – magari sarò il penultimo, il terzultimo, ma non l’ultimo – è solo grazie alla fortunata sinergia tra un corso di studi che oggi si vuole definire a tutti i costi vetusto e un corpo docente che ha saputo interpretare alla perfezione il senso di cinque anni passati a dribblare i signori Ennio, Terenzio, Eschilo, Seneca, Lucano, Petronio e Lisia.
Ma andiamo al dunque, ché le premesse sono sempre noiose.
La stragrande maggioranza di chi difende strenuamente il classico, costituita essenzialmente da gente di penna, basa i suoi argomenti sulla bellezza della letteratura e dunque della poesia, sull’importanza della letteratura e dunque della poesia, su quanto è importante la letteratura e dunque la poesia, sulla letteratura – e dunque la poesia – che addolcisce l’animo, su un tale Catullo che si struggeva ogni giorno per Lesbia***, che la letteratura e dunque la poesia è amore, che l’amore è una cosa bella e che – questa è la drammatica conclusione – servono più poeti e filosofi per il progresso del Paese.
Bene: questi sono gli argomenti di chi, del Liceo Classico, non ha capito nulla.
Per circoscrivere il concetto, però, occorre fare un ripasso di storia.
Iniziamo col dire che al Classico non si insegna un mestiere. Il Liceo Classico, piuttosto, costituisce né più né meno di una facoltà di ingegneria dell’essere umano. Nessun buonismo, nessun bel sentimento: qui si studiano i tratti essenziali dell’uomo, che sono sempre di gli stessi, a prescindere dal tempo e dallo spazio. La sete di potere che si manifesta nel 2024 è la stessa che conduceva gli eserciti Achei sulle spiagge di Troia qualche migliaio di anni fa. Il sistema di gestione del potere politico nella Repubblica Romana è la base del meccanismo di Checks-and-balances proprio delle nuove Costituzioni; ed entrambi hanno lo stesso scopo, che è quello di evitare che il governante diventi tiranno.
Che significa questo? Significa che il Classico è un percorso di studi calibrato su chi è chiamato a fare una cosa, ed una soltanto: dirigere. E sì: se io devo fare il pastore, innanzitutto devo imparare come si muovo le pecore; se io devo dirigere un uomo, devo sapere come si comporta. Il Liceo Classico – o meglio: storia, letteratura e filosofia – serve proprio a questo.
E’ un caso che Alessandro Magno avesse come precettore privato Aristotele? E’ un caso che i Principi delle Signorie rinascimentali si formavano su testi letterari? Evidentemente no. E infatti Giovanni Gentile, quello della Riforma, inventò questo percorso di formazione che era destinato a chi, successivamente, sarebbe stato chiamato a comandare.
Qualcuno, giustamente, può eccepire: ma come si fa ad affermare che il Liceo Classico sia una scuola attuale? Come si può pensare che il Classico – tutto teso verso uno studio del passato – possa offrire gli strumenti per capire l’uomo di oggi e, dunque, proiettarsi verso il futuro? Ma che senso hanno letteratura greca e latina in un mondo fatto di Instagram e TikTok?
Vi offro uno spunto.
Uno degli autori più misteriosi della letteratura latina è Petronio. Petronio, detto “Arbiter”, ossia: Arbitro delle Eleganze. Petronio era un giovanotto molto ricco, grande amico di Nerone, con il quale usciva a fare bagordi né più né meno di un Gianni Agnelli degli anni ’60 in Costa Azzurra. E tanto era ammirato che tutti ne imitavano gli atteggiamenti. Cos’era, dunque, Petronio? Petronio è stato il primo degli influencer, cioè la Chiara Ferragni del I secolo dopo Cristo. Pensate: il Classico è tanto attuale che ha “inventato” – se così si può dire – una delle professioni più ambite (e remunerative) di questo nostro tempo. Però è vetusto, dicono.
Ve ne offro un’altro. Viviamo un tempo che ha moltiplicato i miliardari, intendendo per essi coloro i quali possono vantare un patrimonio valutabile in 999.999.999,00 + 1 dollaro. Molti commentatori – con malcelata invidia – sostengono che questo repentino aumento di potere, non accompagnato da un altrettanto repentino aumento di cultura, costituisce un problema. Attualissimo, peraltro. Eppure, se prendiamo il Satyricon di Petronio scopriamo che una parte importante della sua opera è l’analisi psicologica di Trimalcione, cioè un ex schiavo spaventosamente arricchitosi. Anche allora si erano posti il problema del rapporto tra economia e cultura. Però il Classico è vetusto, dicono.
Un altro ancora e poi basta, giuro. Ogni due per tre esce la notizia di un cieco con la 104 che invece ci vede benissimo: problemi da Welfare State, roba moderna, direte voi. Nuovi reati che certo non esistevano 2000 anni fa, quando la gente o scolpiva statue o assediava città. E invece no. Invece, leggendo una particolare difesa giudiziaria di Lisia, scopriamo che le truffe all’INPS esistevano già nell’Atene del V secolo avanti Cristo. Però il Classico è una scuola superata, dicono.
Il Liceo Classico è talmente attuale e “presente” che è lui stesso a dirti, in ogni modo possibile, che esso è un “mezzo” e non un “fine”. Che serve a farsi un’arte e metterla da parte, e che se pensi di vivere di versi e buoni sentimenti sei destinato a morire di fame. Basta leggere Giovenale, poeta pezzente e miserabile, sempre incazzato con la vita, che non fa altro che maledire la fame cui è stato costretto dalla sua passione: “carmina”, del resto, “non dant panem”. E ti spiega, sempre il Classico, che solo uno (poeta) su mille ce la fa, tipo Marziale, il quale – se veniva richiesto da tutti – era perché aveva gli agganci giusti, frequentava la gente che stava bene e aveva imparato a lisciare il pelo a chi aveva il denaro. Sì, il Classico è una scuola cinica che ti insegna una massima popolare: tratta chiddri megghiu di tia e che dunni ci su soidde si fanno soidde e dunni ci su pirocchi si fanno pirocchi“.
Questo deve insegnare il Liceo Classico, che l’esistenza non è una poesia, ma un’avventura difficile che spesso non riserva il lieto fine. Questo deve fornire il Liceo Classico: i rudimenti di topografia della Vita, affinché ci si sappia orientare.
Diffidate da chi si vanta di conosce a memoria interi brani in greco e latino: è gente che cerca di allampare u viddrano, cioè di truffare il prossimo meravigliandolo con effetti speciali. Nella stragrande maggioranza si tratta di scansafatiche che cercando di rimediare un pasto gratis. E, pensate un po’, è sempre lo stesso Liceo Classico a darvi le dritte per evitare questa gentaglia: il retore Agamennone, infatti, è un letterato che si fa invitare a cena dal ricco blandendolo con discorsi meravigliosi.
Il dramma del Classico è che rischia di autodistruggersi a causa di docenti che fanno i docenti sol perché non hanno trovato un lavoro alternativo: non avendo inteso il Classico, perpetuano il fraintendimento che esso sia una scuola proiettata a produrre letterati, creando così studenti destinati a ripetere lo stesso meccanismo perverso: ed è in questo modo che si produce una classe capace solo leggere in metrica l’Iliade, ma del tutto inadeguata di affrontare quel che la realtà propone loro. Ecco, il Classico serve ad evitare proprio questo.
Piuttosto, uno studente che esce dal classico e ha studiato, ma studiato veramente, e ha capito il Classico, ma lo ha capito veramente, è una cellula staminale. Se tutta la vita dell’uomo ruota intorno al pensiero – che è la precondizione di ogni azione razionale – allora lo studente del classico viene addestrato a pensare (e agire, di conseguenza). Lo studente del classico non studia un “uomo” in particolare: non quello greco, non quello romano, non quello rinascimentale né quello di fine ottocento. Lo studente del classico studia l’Uomo e basta.
Se dovessimo trasporre questo ragionamento in termini matematici, potremmo dire che – laddove gli altri studiano un risultato – lo studente del classico studia l’equazione: il risultato, infatti, varia al variare delle variabili (tempo, luogo); l’equazione – invece – è la regola e la regola permane. Perché sì: cambiano gli stili architettonici ma l’Uomo, nei suoi tratti essenziali, rimane sempre lo stesso sia che si chiami Cesare o Montezuma.
Alla fin dei conti, il “Classico” altro non è che una continua riduzione in comune denominatore della variabile Umana. Infatti, la sua caratteristica più precipua è l’Universalità: Socrate lo puoi spiegare ad un indiano e lo capirà, perché – in sintesi – la lingua è la stessa ed è quella “umana”.
Queste competenze devono rappresentare la base su innestare altre competenze, che sono quelle richieste dal mercato del lavoro. A questo punto apparirà chiaro come lo studio del Classico fine a se stesso costituisca un esercizio tanto bello quanto inutile: ed è proprio questo che rischia di distruggere un percorso di studi che, davvero, tutto il mondo occidentale guarda come modello.
Riccardo Rubino
*aoristo: tempo verbale di pressoché impossibile decifrazione.
** Rocci, inteso come Lorenzo Rocci, gesuita lessicografo autore dell’omonimo vocabolario di di greco, flagello devastante di ogni studente di ginnasio.
*** Lo stesso Catullo, nel Carme XVI, minaccia i suoi amici, definiti froci, Aurelio e Furio di – letteralmente – mettergliela nel culo. Proprio così: controllate voi stessi.