La fine del populismo di governo

Di fronte ai risultati dell’ultima tornata elettorale si sono moltiplicati bilanci e giudizi definitivi sulla fine della rivoluzione populista e sulla presunta normalizzazione della dialettica politica italiana, tornata finalmente ad arginare la marea anti-sistema con corpose iniezioni di competenza e professionismo di partito. Al di là degli esiti dei ballottaggi e dei bilanci complessivi che riguarderanno il peso specifico degli schieramenti in gioco, rimane il dato
della sonora sconfitta di un movimento anti-casta nato dal ribellismo indignato di chi non voleva lasciarsi compromettere dalle seduzioni del Palazzo. Parafrasando una fortunata sintesi di Nicolas Baverez, il populismo sembrerebbe aver perso il popolo. Ma non il vizio. In primo luogo perché sarebbe semplicistico e approssimativo ridurlo agli ultimi vagiti del grillismo e non riconoscerne invece le tracce anche nelle movenze di alcuni partiti tradizionali, soprattutto quelli a trazione sovranista; in secondo luogo per il fatto che buona parte degli umori populisti è confluita nel calderone caleidoscopico dell’astensionismo. Un
populismo di protesta dentro la protesta, fatto di carboni ancora ardenti e di delusi pronti a mettere in soffitta l’apatia di una tornata elettorale per tornare ad occupare, quando necessario, lo spazio politico, con l’obiettivo di continuare a gridare la propria rabbia e frustrazione. In altre parole, l’exit strategy del populismo del non voto potrebbe rappresentare solo una scelta temporanea, pronta a sostituire l’opzione del rifiuto delle urne con quella di una nuova discesa in campo, qualora se ne creassero di nuovo le condizioni e ne valesse seriamente la pena. Senza dimenticare che un calo fisiologico dell’effervescenza ribellista era comunque atteso. Lo stato nascente di ogni movimento di
protesta deve subire giocoforza la prova del tempo se non anche quella del potere,
accettando quindi di trasformarsi in pratica politica con tutto ciò che ne consegue in termini di caduta delle illusioni e di perdita della propulsione idealistica.
Ad essere stato sconfitto nelle urne è dunque semmai il populismo di governo, quello di chi ha amministrato e agito male proprio all’interno del sistema, evidenziando tutti i limiti di un’improvvisazione e impreparazione troppo presto derubricate, quando non osannate, come caratteristiche scusabili di homines novi da poco affacciatisi nell’agone politico. Guai ai disturbatori che avessero alzato deplorevoli perplessità mentre il nuovo avanzava rottamando gli ultimi cascami del potere, proprio mentre i ribelli si accingevano alla
delicata operazione di un’improcrastinabile palingenesi politica. Il Palazzo è piaciuto ai contestatori e i sanculotti hanno dismesso troppo presto gli abiti rivoluzionari preferendo calze di seta, parrucche incipriate, scarpe con fibbia e giacche lunghe. Dal populismo all’elitismo il passo è stato dunque brevissimo e la nuova aristocrazia giacobina ha finito con il confondersi nel giro di un mattino tra i mille volti del potere che logora, sia chi ce l’ha, sia chi non ce l’ha. Anche sui ritmi precipitosi di una tale metamorfosi dovranno dunque riflettere i futuri officianti del rito democratico. Sempre che esista ancora qualcuno a cui interessi questo culto.

FEDERICA SBRANA