Il nuovo mosaico a ciottoli di Mozia: alla scoperta della bellezza

Il nuovo mosaico a ciottoli di Mozia: alla scoperta della bellezza

Questo già da solo merita la visita all’Isola. Mentre la città in rovina veniva così riconvertita ad altre non meno importanti funzioni dalla ricca comunità di mercanti, imprenditori e naviganti che si era ormai insediata a Lilibeo, alcuni aristocratici costruirono le loro ville sul lato orientale più riparato della piccola isola. La più monumentale di queste ville fu scavata da Joseph Whitaker agli inizi del secolo scorso e fu chiamata, per uno straordinario ritrovamento al suo interno, la “Casa dei mosaici”.

di Lorenzo Nigro

Quando l’incendio devastante fu finito e le macerie lasciate dall’assedio siracusano furono rimosse, i moziesi scampati alla distruzione portata da Dionigi tiranno di Siracusa nel 397/6 a.C. si stabilirono definitivamente a Lilibeo, sul capo che guarda la Lybia, ossia l’Africa. Ma l’isola non fu abbandonata del tutto. I due principali luoghi di culto legati alle acque dolci – il grande tesoro di Mozia – furono in parte ricostruiti (il Tempio di Melqart a nord, nell’area detta del “Cappiddazzu” e il Tempio di Baal a sud nell’area del Kothon, che fu riattato come area di culto a cielo aperto), come anche il Santuario del Tofet per l’incinerazione dei bambini. Ampi settori della città distrutta furono destinati alla produzione industriale tipica dell’economia fiorente del IV secolo a.C. Lungo le mura e nel corpo delle mura crollate, preziose fonti di pietra e legname per i costruttori di Lilibeo, vennero realizzate numerose fornaci per produrre anfore e altri vasi in gran numero, mentre la fascia più settentrionale dell’isola era dedicata alla produzione della porpora e alla tintura, che necessita di ampi spazi e che produce miasmi non adatti ad una zona abitata. Più all’interno, ad esempio sulle pendici meridionali dell’acropoli, gli strati del IV secolo a.C. sono ricchi di installazioni metallurgiche: forni per la fusione del ferro e botteghe di fabbri. Mentre la città in rovina veniva così riconvertita ad altre non meno importanti funzioni dalla ricca comunità di mercanti, imprenditori e naviganti che si era ormai insediata a Lilibeo, alcuni aristocratici costruirono le loro ville sul lato orientale più riparato della piccola isola. La più monumentale di queste ville fu scavata da Joseph Whitaker agli inizi del secolo scorso e fu chiamata, per uno straordinario ritrovamento al suo interno, la “Casa dei mosaici”. La villa era stata costruita sui resti di edifici più antichi di non poca monumentalità (ci troviamo non lontano dalla porta e dal molo orientali della città), contraddistinti da ampie fondazioni in blocchi di calcarenite, con un settore più elevato, abbellito da un cortile porticato con colonne doriche ed uno inferiore, di servizio, con ambienti e magazzini realizzati nella tecnica a telaio tipica dell’architettura cartaginese. Il porticato, aperto su almeno tre lati (nord-est-sud) era decorato con una pavimentazione musiva speciale: un mosaico a ciottoli, di tradizione punica (con esempi molto antichi dall’Oriente alla penisola iberica al Nord-Africa), diffusosi anche nel Mediterraneo ellenizzato del IV secolo a.C. I piccoli ciottoli di fiume, neri e bianchi, sono allettati in una malta lattiginosa e resistente per comporre un vero tappeto musivo, di affascinante bellezza. Gli scavi del secolo scorso portarono alla luce una prima porzione del tappeto musivo steso sul lato settentrionale del peristilio, comprendente quattro riquadri figurati giustapposti e separati da un rettangolo bianco diviso in rombi e racchiusi, come in un tappeto, in una triplice cornice: la prima con il motivo ad onda antichissimo risalente al mondo minoico e poi greco, la seconda con le palmette caratteristiche dell’arte orientale, fenicia e infine della Ionia; la terza con il motivo a meandro tipicamente greco. L’intervento di restauro curato dalla compianta Maria Luisa Famà (svolto nel 1992 e pubblicato nel 1997) portò alla scoperta di un’ulteriore coppia di pannelli figurati che si estendono verso est nello stesso tappeto, rimasti celati sotto una spessa scialbatura di calce. È stato proprio durante la pulizia dei margini del più meridionale di questi pannelli che le validissime restauratrici Alessandra De Natale e Francesca Gaia Romagnoli del Consorzio Mozia si sono accorte che la cornice musiva proseguiva verso sud, costellata di ciottoli ancora più sottili di quelli utilizzati nel tratto sinora conosciuto. I lavori di restauro, inseriti nel grande intervento di musealizzazione di Mozia finanziato dall’Assessorato Regionale ai Beni Culturali e Ambientali, con la consulenza scientifica dell’Università di Roma «La Sapienza», hanno quindi portato ad un’inattesa scoperta: sul lato meridionale del portico si estende un secondo tappeto musivo, anch’esso realizzato nella tecnica a ciottoli, di fattura straordinaria e dalle iconografie inaspettate.

Ma torniamo al primo mosaico. Questo già da solo merita la visita all’isola e suggerisce intense relazioni con le sue vivide immagini che sono simboli e allo stesso tempo icone di una cultura ibrida e mitopoietica: nel riquadro più ad ovest troviamo il grifone che abbatte il cavallo, un tema caro ai moziesi e ai cartaginesi a giudicare dalla frequenza con cui viene rappresentato sulle piccole are in terracotta per il culto domestico, dove veniva stampigliato da matrici che Anna Maria Bisi volle riconoscere prodotte a Mozia stessa. Niente ci impedisce di pensare che si tratti della raffigurazione di un’opera scultorea maggiore, riprodotta nelle arti minori e in quelle decorative, esattamente come accade per la scenda magistralmente illustrata nel secondo pannello, dove una leonessa atterra un toro, secondo l’iconografia utilizzata per il gruppo scultoreo monumentale che sovrastava la Porta Nord della città (oggi visibile nel Museo G. Whitaker) nel quale due leonesse abbattono un toro, paragonato da M. Mertens Horn allo stile del maestro delle metope del Tempio E di Selinunte. Il grifone che atterra il cavallo potrebbe essere stato il soggetto scolpito sulla Porta Sud? Il mosaico prosegue con un’interruzione: un rettangolo campito a rombi da linee nere, cui seguono quattro pannelli più piccoli a soggetto animalistico, tre dei quali hanno la base della raffigurazione rivolta verso est, mentre uno solo, situato nell’angolo e scoperto per l’appunto nel 1992, è rappresentato con la base a sud, come lo sono i successivi pannelli del nuovo mosaico scoperto a seguire sul lato meridionale del portico. In questa seconda porzione del mosaico settentrionale troviamo a sinistra per chi guarda coerentemente con la raffigurazione un cavallo – animale sacro a Baal infero (Poseidon dei Greci) e ricorrente sulla monetazione di Cartagine, affrontato ad una leonessa, sacra ad Astarte/Tanit la dea fenicio-punica per eccellenza. Più ad est, troviamo un grande toro – stavolta caro a Baal/Hadad ossia il dio della tempesta fecondatore, cui pure rimanda il pannello ruotato e conservato solamente in parte, dove sono rappresentati due capridi rampanti retrospicienti in posizione araldica. Quest’ultimo pannello si caratterizza per essere ruotato di 90° rispetto agli altri, disponendosi già nel verso di quelli che seguiranno nel giustapposto tappeto musivo meridionale. Inoltre, le figure, diversamente da tutti gli altri riquadri del tappeto settentrionale, sono rese con ciottoli neri su fondo bianco. Gli occhi dei capridi sono evidenziati da ciottoli molto grandi, mentre le corna e il muso allungato dei due animali adottano già i ciottoli più piccoli che sono poi tipici del tappeto meridionale. Non sembra quindi troppo azzardato ipotizzare che questo riquadro differente possa essere stato realizzato come elemento di giunzione con il mosaico meridionale. Proprio da questo punto sono partite le restauratrici: sapienza, pazienza e mano ferma le hanno condotte centimetro dopo centimetro a rimettere in luce qualcosa di straordinario, rimasto celato per duemila e trecentocinquanta anni. Il nuovo tappeto musivo, venuto alla luce esattamente cento anni dopo quello pubblicato dal Whitaker nel 1921 nel suo libro Motya. A Phoenician colony in Sicily, è realizzato in ciottoli allungati di piccole o piccolissime dimensioni; è caratterizzato da un fregio decorato con immagini di pesci: delfini, tonni, ma anche spigole dello Stagnone e forse anguille, secondo quel gusto tipico dell’arte naturalistica in età ellenistica. I pesci sono resi con tratti quasi coloristici nonostante la bicromia: le pinne dorsali, gli occhi e le labbra a volte presentano ciottoli rossi. Ma la cosa più sorprendente sono i riquadri con figure bianche su fondo nero. Ci sono prima due riquadri affrontati con due volatili con lunghe zampe (piede a papera reso in rosso) e becchi: due cigni, due cicogne o due fenicotteri, tipici degli ambienti fenici? Seguono altri due riquadri, uno con il centauro preso nell’atto di scagliare il sasso affiancato a Pegaso in volo. Ancora al di sotto, verso sud, in un pannello più grande appare un cavallo marino (ippocampo), una sorta di pistrice con corpo di drago e coda di delfino, il mostro marino caratteristico del corteo di Poseidon, il grande Baal del Kothon, sotto il quale nuotano due bei pesci. Nel pannello più a sud, infine, il partito figurativo ospita diagonalmente una figura femminile alata – una dea probabilmente, vista di scorcio dal basso: ancora un’iconografia greca inattesa tra tante immagini simboliche orientali o una rielaborazione dell’antichissima Ishtar alata? Straordinarie quindi la varietà e la ricchezza di questo secondo tappeto musivo, con soggetti classici della mitologia greca, rivisitati nel lettura fenicia e punica dei moziesi e resi in iconografie riconoscibili, ma sempre fiorite e libere. I mosaici sono realizzati con finezza, immergendo e fissando i piccoli ciottoli allungati nella malta lattiginosa con un effetto di profondità che si apprezza ancor di più dalla distanza.

I lavori sono ancora in corso, ma non possiamo che rallegrarci ancora una volta, perché l’archeologia di Mozia ha lasciato filtrare un altro luminosissimo raggio di luce tra le dita sapienti delle restauratrici attraverso i secoli. Grazie alla Soprintendenza di Trapani, alla Fondazione Whitaker che di questa splendida isola si prendono cura e all’Assessorato Regionale per i Beni Culturali che ha voluto, su impulso del compianto Sebastiano Tusa, lanciare il grande progetto di valorizzazione dell’archeologia moziese che sta rendendo sempre più apprezzabile uno dei siti più affascinanti del Mediterraneo antico.

Lorenzo Nigro