Che partì da Marsala con la voglia di fare l’avvocato e invece finì col fare l’avvocato, ma anche il produttore di vino, il coordinatore nella campagna elettorale di Beppe Sala alle amministrive di Milano e il “Cliente dell’anno” della guida ai ristoranti d’Italia de l’Espresso
di Riccardo Rubino
“I Marsalesi? Te li trovi dappertutto…!”Avrete anche voi commentato, con questo adagio, la notizia di un concittadino che fa… notizia nel Continente. O forse più spesso l’avete sospirato quando, in vacanza su latitudini esotiche, immancabilmente qualcuno bussa alla vostra spalla chiedendo “e tu chi ci fai ccà?”. Il mondo, a quel punto, diventa una piccola Piazza Loggia.
Manfredi Franco, classe 1990, marsalese nato a Marsala e non ad Erice, sintetizza questo aspetto cosmopolita del Lilybetano. Che – per quanto possa essere luogo comune – riesce quando… esce dai confini di questa terra*. Bella e dannata, per rimanere sul pezzo del luogo comune. Sì, perché lo anticipo: se Manfredi Franco fosse rimasto qui, avrebbe continuato a fare quel che ha fatto dalla più tenera età fino ai 18 anni, ossia: mangiare crepes alla nutella al bar dei Canottieri e ostentare una bravura tennistica più immaginata che reale.
Invece, complice il biglietto sola andata per Roma, staccato per seguire le lezioni di Giurisprudenza, la vita del nostro concittadino ha preso deviazioni inaspettate e felici: e questo è bello, perché rende la cifra dell’imprevisto, che – come al gioco del monopoli – non distribuisce sempre e solo guai. Pensiero confortante, tutto sommato.
La prima volta che incontrai Manfredi Franco fu un giorno di settembre del 1994. Avvolti dal grembiule d’ordinanza varcavamo il cancello di Villa del Rosario, e lui – col volto un po’ rubicondo tipico dei bambini – ostentava fiero il suo pupazzo di Robocop. Io, in controtendenza, tenevo stretto nel pugno quello del “cattivo”. “Mi chiamo Manfredi Franco, giochiamo assieme?”. Senza capire bene quale fosse il nome e quale il cognome, dissi di sì e lì diventammo amici. Questo per dire che se c’è qualcuno titolato a parlare di Manfredi, quello sono io, che me lo sobbarco da 26 anni.
L’Asilo, le medie, le superiori e l’Università: cadono i fogli dal calendario, mutano le maggioranze politiche, le età, le mode, le canzoni. Viviamo a Roma, frequentiamo ambienti contigui ma diversi. Nonostante tutto, quando mi veniva presentato qualcuno e, in un modo o nell’altro, usciva il fatto ch’io fossi marsalese, ebbene: puntuale come una scadenza, quel qualcuno mi diceva “Ma sai, io conosco un tale di Marsala: Manfredi Franco. Lo conosci?”. “Sì. Purtroppo”.A quel punto, balenò nella mia mente quel che un genetista scoprirebbe con matematica certezza, e cioè che Manfredi condivide molta parte del suo DNA con un vegetale aromatico: il prezzemolo, che te lo ritrovi tanto sul risotto ai funghi quanto sulla pasta con le vongole.
Pigiamo adesso il tasto forward del tempo e arriviamo alla Laurea. Manfredi indossa la corona d’alloro e con la pergamena sotto braccio – quella dove si legge “Il rettore, veduto il risultato d’esame di laurea superato in questa università, conferisce la Laurea Magistrale in Giurisprudenza…” – va a fare la pratica in un prestigioso studio legale romano. Lì dura, napoleonicamente parlando, sì e no 100 giorni. Resosi conto che quel diritto non faceva per lui, stacca dal muro la laurea incorniciata, fa fagotto e si mette a seguire un master in relazioni istituzionali. “E che è?” chiedo. E lui: “Boh, una cosa che conosci gente, le metti in relazione tra di loro, insomma Lobby”. “Ma è legale ‘sta cosa?”. Risposta: “a quanto pare sì”.
Intanto, il nostro intuisce che non c’è nulla di più opportuno – in una conversazione – che parlare di vino e cibo: conoscere annate e ristoranti circonfonde chi ne parla di un’aura speciale, da vecchio intenditore. E siccome tutti vogliono godere dei piaceri della tavola, allora tutti chiederanno un consiglio a chi vanta l’expertise in tema: è in quel momento che Manfredi fiuta l’opportunità. Inizia ad interessarsi al burro chiarificato e alla differenza tra la cipolla e lo scalogno; tutti conoscono cos’è una trascrizione e in che modo essa tuteli il diritto di proprietà, in pochi – invece – sanno qual è la temperatura ideale per ‘ngrangiare il soffritto. E’ lì che si vede la differenza. Di pari passo, intanto, inizia ad approfondire tutto ciò che ruota attorno ‘e zucchi, dalla misteriosa arte dell’inzitare alle geometrie dei filari. Tutte cose che, ironia della sorte, col diritto non c’entrano assolutamente nulla.
Quando hai sentito la vocazione per l’enogastronomia?
In realtà io sono sempre cresciuto in questo ambiente. Mio padre è l’amministratore del Baglio Biesina, dove si produce il Marsala Stravecchio e sin da bambino…”
Fesserie. Tu fino all’età di vent’anni ti distruggevi di BigMac ed io ne sono testimone. Per favore, solo la verità.
In realtà l’amore (quello vero) per tutto ciò che è cucina e vino nasce a Roma, ai tempi dell’Università. Tutto è iniziato quando ho incontrato Arcangelo Dandini – chef eccezionale proprietario di due ristoranti a Roma: l’Arcangelo e Supplizio – il quale mi ha iniziato a questo mondo: due chiacchiere sul cibo, sui ristoranti, sugli chef e sul vino mi hanno letteralmente aperto il mondo, facendomi scoprire questa passione. Da lì è stata un’escalation, perché ho iniziato a frequentare ristoranti stellati dove la cucina non è solo un modo per saziarsi ma diventa una vera e propria esperienza.L’altra tappa fondamentale è stata a Milano, dove mi sono trasferito per lavoro. Lì mi sono aggregato ad un gruppo di amici che, per passione, girano per i migliori ristoranti d’Italia (e d’Europa) scrivendone recensioni.
Va bene, però a mangiare siamo buoni tutti: non mi pare ci voglia chissà quale competenza. Mi preme capire com’è che sei stato premiato nel 2019 da L’Espresso come migliore cliente dell’anno.
Allora, ti spiego. Il Premio “Cliente dell’Anno” è un ribaltamento di prospettiva: solitamente sono i ristoranti ad essere sotto esame; con questo Premio – organizzato dall’Espresso – sono invece i ristoratori a giudicare i clienti. Ed è così che la Guida “Ristoranti d’Italia” dell’Espresso ha messo attorno ad un tavolo tutti i più blasonati chef d’Italia per assegnare il premio al “cliente del cuore”. Nel 2019 questo riconoscimento è toccato a me e ad Alberto Rigolio. Ma non è una cosa che viene dal nulla: si tratta, piuttosto, del risultato di un continuo girare e recensire, osservando precise regole e standard di qualità.
E il vino in tutto ciò?
Non si può scindere la cucina dal vino: sono due facce della stessa medaglia. Prima bevevo in maniera quasi automatica, senza pormi troppe domande. Poi, vuoi la curiosità, vuoi la voglia di saper parlare di qualcosa, ho cominciato a studiare il mondo dell’enologia da autodidatta. Approfondendo la materia con lo studio sistematico delle riviste di settore, ho capito che il vino non è solo un liquido, ma qualcosa di più.Dopodiché ho iniziato a frequentare vignaioli e cantine di tutta Italia, bombardando di domande i migliori produttori di vino. I quali – ad essere sinceri – sono sempre stati molto disponibili.Un giorno, mentre bevevo un bicchiere di vino, ho deciso di provare a fare anch’io il mio vino.
Aspetta: quindi in sostanza tu, che non hai fatto l’agrario e del vino – fino a qualche anno fa – sapevi solo che veniva dall’uva, hai deciso di fare vino?
Sembra assurdo ma è così. Non c’è bisogno di essere figli d’arte o ereditare vigne per “lavorare in proprio”. Tutto nasce dall’incontro con Vincenzo Angileri, proprietario della Cantina Vite ad Ovest. Quando abbiamo scoperto questa passione comune, abbiamo deciso di intraprendere un progetto: un bianco e un rosso che si chiamano – per l’appunto – “Manfredi Bianco” e “Manfredi Rosso”.
Un nome di una originalità commovente, complimenti vivissimi.
Eh vabbè, il primo vino deve per forza chiamarsi così. Ad ogni modo, io e Vincenzo abbiamo unito le nostre forze: io ho scelto le uve e lui ha fatto tutto il resto.
E quanto c’è del precorso di Manfredi in questo vino?
Tutto. E’ stato il continuo assaggio, lo studio delle uve, le domande ossessive ai produttori che mi hanno fatto capire non solo di voler fare vino, ma soprattutto quale vino fare. In questo caso, si tratta di un bianco di zibibbo, grillo e cataratto, e di un rosso da uve nocera, corinto e nerello mascalese.
Ora arriviamo alla circostanza più incredibile di tutte: sei diventato coordinatore del tavolo di network “cibo” della campagna elettorale di Beppe Sala a Milano.
Ho avuto modo di conoscere Maura Satta Flores – la presidente della campagna elettorale di Beppe Sala – tramite amici comuni. Dopo esserci conosciuti, mi ha proposto questo ruolo.
Ma in cosa consiste?
E’ molto semplice. Si è deciso di creare tanti piccoli “Think Tank” ognuno dedicato ad un settore specifico: ad esempio, mobilità, ambiente, urbanistica, casa. Ognuno di questi è un collettore di idee e soluzioni che si tramuteranno, poi, in azione politica.In sostanza: ogni “tavolo” raccoglie le istanze e le esigenze di un comparto produttivo, le elabora e ne fa proposta politica. Io sono il coordinatore del “tavolo” dedicato a tutto ciò che ruota attorno al cibo, dalla ristorazione allo street-food. Sono molto soddisfatto di questo incarico: avete presente l’importanza economica che la ristorazione riveste a Milano?
Adesso la domanda più scontata del mondo: a tutto ciò come ci si arriva?
“Ma si tratta di una serie di fortunate coincidenze, gli inglesi la chiamano “serendipity” che nel contesto della vita sta a significare che…”
“Seren- che?”
“Niente, c’ho solo avuto culo”.
“Ok, adesso ti riconosco”.
* non è affatto così, ma nell’economia di questo articolo ci sta: consentitemelo.