Il 9 aprile a Palazzo Branciforte “Il seme d’arancia su terra di Sicilia”

Il 9 aprile a Palazzo Branciforte “Il seme d’arancia su terra di Sicilia”

 9 APRILE A PALAZZO BRANCIFORTE due nuovi appuntamenti nell’ambito del progetto Isgrò Dante Caravaggio e la Sicilia, promosso da Fondazione Sicilia in occasione del trentesimo anno dalla sua nascita, con Amici dei Musei Siciliani, in collaborazione con Archivio Emilio Isgrò e la partecipazione di Fondazione per l’Arte e la Cultura Lauro Chiazzese.

Inizio alle ore 18,00 con la presentazione del catalogo Isgrò Dante Caravaggio e la Sicilia, pubblicato da Skira Editore con tutti i materiali, una testimonianza dell’artista, le riproduzioni delle opere in mostra a Villa Zito, i testi dei curatori e di importanti studiosi a commento dei diversi aspetti dell’arte di Isgrò trattati.

A SEGUIRE la presentazione di Seme d’arancia su terra di Sicilia, opera di Emilio Isgrò di recente acquisita alla collezione della Fondazione, acquisizione che agli occhi del Maestro contribuirà a legare ancora di più l’idea del seme d’arancia all’Isola amplificandone così il valore simbolico.

Per accedere è obbligatorio essere muniti di mascherina almeno chirurgica.

“Con l’acquisizione e l’esposizione a Palazzo Branciforte dell’opera Seme d’Arancia su terra di Sicilia, la nostra Fondazione consolida ulteriormente il proprio rapporto con Isgrò. Un percorso – afferma il presidente di Fondazione Sicilia, Raffaele Bonsignore – che parte dall’emozionante esposizione delle opere del Maestro a Villa Zito prorogata fino al prossimo 2 maggio, con cui l’artista esplora e dialoga con Dante e la nostra Isola. L’auspicio di questa ulteriore fase del percorso è che il Seme diventi il simbolo della rinascita culturale della Sicilia, una terra che ha sempre più urgenza di essere svincolata da stereotipi. Anche a questo è chiamata l’arte”.

Il primo Seme d’Arancia, tra le sculture più note di Isgrò, è grande scultura pubblica realizzata nel 1998 per la sua città natale, Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia, come opera simbolo in grado di rispecchiare la volontà di rinascita di una città vittima della disgrazia mafiosa. È una grande metafora della cultura siciliana e della sua possibilità di rinascita, rimanda alle culture del Mediterraneo, solari e avvolgenti, che si sono sviluppate tanto con la parola che con gli scambi dando vita a valori di convivenza civile e di accoglienza.

“Isgrò concepisce un’“euròpera” – è scritto in catalogo -, una vera e propria offerta alla cittadinanza che da siciliana si fa italiana e, naturalmente, europea. Quale elemento può raccogliere in sé l’anima mediterranea, siciliana e europea se non un seme, emblema universale della nascita o rinascita in potenza? Così, proprio in quella terra, riconosciuta culla della civiltà europea, la Sicilia, si erge un monumento alla vita e alla fecondità dell’uomo e della natura”.

Quello di Barcellona viene ormai definito come “protoseme” perché in seguito ne sono derivati altri, di varie forme e materiali.

L’ultimo, Seme d’arancia su terra di Sicilia che sarà installato a Palazzo Branciforte, sembra quasi riallacciare un filo che torna in questo modo nell’isola natale dell’artista, origini che comunque non si sono mai perse nello sviluppo artistico di Isgrò e che ritornano più o meno esplicitamente in molte delle sue opere.

Il progetto di allestimento curato dall’Associazione Lapis posa l’opera, fusa in bronzo, su una “terra” tipica della Sicilia identificabile con tutta l’Isola e il suo territorio, la selenite, una roccia di gesso macrocristallina. L’effetto bianco e vetroso delle molteplici sfaccettature ne fanno un materiale esteticamente apprezzabile fin dai suoi affioramenti visibili sul terreno naturale. La sua origine geologica risale a poco meno di sei milioni di anni fa, quando l’evaporazione dell’acqua dell’antico Mar Mediterraneo ha prodotto i macrocristalli che poi i Romani chiamarono lapis specularis.

In passato, come detto, il Seme d’Arancia è stato più volte protagonista delle cronache culturali. La scultura di Barcellona in tufo resina e sabbie vulcaniche di monumentali dimensioni, torna a far parlare di sé nel 2014 quando l’opera, provata da anni di esposizione agli agenti atmosferici, viene restaurata per dare vita a un’iniziativa più ampia destinata a coinvolgere attivamente la cittadinanza e le scuole in una forma partecipativa collettiva. Nel 2015 ad accogliere i visitatori di Expo a Milano svetta il Seme dell’Altissimo: un imponente seme d’arancia, ingrandito un miliardo e cinquecento milioni di volte, alto sette metri e realizzato in marmo bianco del monte Altissimo, estratto direttamente dalle cave delle Alpi Apuane. La scultura viene successivamente donata alla città di Milano e oggi la ritroviamo collocata in permanenza nel giardino antistate il palazzo della Triennale. I semi di Isgrò sono stati impiantati nel 2017 anche a Catania, nel giardino di Fondazione RadicePura, ai piedi dell’Etna, come se sputati direttamente dal vulcano nell’installazione Il sogno di Empedocle. Si può ammirare un seme di limone ingrandito alla Fondazione Vittoriale degli Italiani, a Gardone Riviera, in provincia di Brescia, con l’opera Aligi del 2016.

D’altronde, come racconta spesso l’artista, spetta anche e soprattutto all’arte il compito di indurre a una riflessione più profonda e agli artisti la responsabilità politica e sociale di insistere sulle chiavi di lettura della contemporaneità. Il Seme porta con sé la crescita, lo sviluppo e la ricchezza in nuce, è un elemento che trova la sua tradizione locale, ma che immediatamente si fa universale.

Biografia di Emilio Isgrò

Emilio Isgrò (Barcellona Pozzo di Gotto, Messina, 1937)

Considerato tra gli innovatori del linguaggio artistico italiano del secondo dopoguerra, Emilio

Isgrò è il padre indiscusso della cancellatura, un atto che ha iniziato a sperimentare dai primi

anni Sessanta e che ancora oggi mantiene la stessa vivacità e audacia creativa. Questa originale

ricerca sul linguaggio lo ha reso una figura pressoché unica nel panorama dell’arte

contemporanea internazionale facendone uno degli indiscussi protagonisti. È, infatti, il 1964

quando l’autore inizia a realizzare le prime opere intervenendo su testi, in particolare le pagine

dei libri, coprendone manualmente una grande parte sotto rigorose griglie pittoriche. Le parole e

le immagini sono cancellate singolarmente con un segno denso e dello scritto restano leggibili

soltanto piccoli frammenti di frasi o un solo vocabolo. Nel tempo questo gesto si applica alle carte

geografiche, ai telex, al cinema, agli spartiti musicali, anticipa le espressioni più tipiche dell’arte

concettuale, si declina in installazioni e, con il passaggio dal nero al bianco negli anni Ottanta, arriva a risultati pittorici che si sono rinnovati in questi ultimi anni quando con la cancellatura ha

costruito immagini quasi fossero pittogrammi. Il cancellare è un gesto contraddittorio tra distruzione e ricostruzione. Le parole, e successivamente le immagini, non sono oltraggiate dalla cancellatura ma attraverso questa restituiscono nuova linfa ad un significante portatore di più

significati: l’essenza primaria di ogni opera d’arte. La cancellatura è la lingua inconfondibile della ricerca artistica di Emilio Isgrò che oggi appare come una filosofia alternativa alla visione del mondo contemporaneo: spiega più cose di quanto non dica.

Dopo l’esordio letterario con la raccolta di versi Fiere del Sud (Schwarz, 1956), si dedica

alla Poesia visiva, nel doppio ruolo di teorizzatore e artista. Nel 1966 si tiene la sua prima

personale presso la Galleria 1 + 1 di Padova a cui seguono numerose mostre presso la Galleria

Apollinaire, la Galleria Schwarz e la Galleria Blu a Milano, La Bertesca a Genova, la Galleria Lia

Rumma a Napoli. Nel 1977 vince il primo premio alla Biennale di San Paolo. Nel 1985 realizza a

Milano l’installazione multimediale La veglia di Bach, commissionata dal Teatro alla Scala per

l’Anno Europeo della Musica, mentre nel 2010 con la mostra Var Ve Yok è presente alla Taksim

Sanat Galerisi in occasione di Istanbul Capitale Europea della Cultura.

Partecipa alla Biennale di Venezia del 1972, 1978, 1986 e del 1993, quest’ultima con una sala

personale. Di rilievo è anche la sua attività di scrittore e uomo di teatro, consolidatasi

con L’Orestea di Gibellina (1983/84/85) e con alcuni romanzi e libri di poesia, tra

cui L’avventurosa vita di Emilio Isgrò (Il Formichiere, 1975), Marta de Rogatiis

Johnson (Feltrinelli, 1977), Polifemo (Mondadori, 1989), L’asta delle ceneri (Camunia,

1994), Oratorio dei ladri (Mondadori, 1996) e, infine, Brindisi all’amico infame (Aragno, 2003). In

questi ultimi anni sue mostre personali sono state presentate al Centro per l’arte contemporanea

Luigi Pecci di Prato (2008), alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (2013) e, nel 2016,

una grande antologica a cura di Marco Bazzini ha coinvolto Palazzo Reale, Gallerie d’Italia e Casa

del Manzoni a Milano. Lo scorso anno una mostra a cura di Germano Celant è stata presentata alla

Fondazione Giorgio Cini di Venezia.

Le sue opere sono presenti nelle maggiori collezioni private e pubbliche nazionali e

internazionali.