Ancora sul turismo e sui beni culturali intesi come malattie economiche

Ancora sul turismo e sui beni culturali intesi come malattie economiche

Nello scorso editoriale abbiamo spiegato i motivi per cui il turismo, in termini economici, è come la droga: nel breve periodo, fa impennare il PIL; sul lungo periodo, tuttavia, sfonda completamente l’economia di un paese. Perché? Perché – a conti fatti – costituisce una rendita. Abbiamo un bel mare, abbiamo un bel sole, abbiamo i beni archeologici: limitiamoci a “metterli a frutto” (ossia: renderli fruibili) e aspettiamo. Qualcuno, prima o poi, arriverà.

Chiaramente, se basta avere una casa da locazione turistica, cambiare le lenzuola e incassare la pigione, cosa mi spinge a impegnarmi in una attività professionale/imprenditoriale, che magari comporta pure l’assunzione di personale dipendente? Per quale motivo dovrei studiare, specializzarmi e ottenere “competenze” se, alla fin dei conti, mi basta aprire e chiudere la porta della casetta al centro storico?

Così si deprime il paese: meno impresa vuol dire meno posti di lavoro; meno posti di lavoro vuol dire gente che si accontenta di un salario minore pur di lavorare. E tralasciamo, naturalmente, l’aspetto del “valore aggiunto” che apporta il singolo lavoratore. Sì, perché: un ingegnere, come del resto anche un artigiano, ha la capacità di “trasformare” la materia inerte e decuplicarne il valore. In che senso? Un pezzo di legno cosa 10 euro; ma se un falegname lo trasforma in una credenza, quello stesso pezzo di legno varrà 1000 euro.

E’ la trasformazione della materia a creare, dal nulla, la ricchezza. Il turismo, dal canto suo, non solo non trasforma nulla, ma – tolti cuochi e barman – richiede una pletora di lavoratori a bassa specializzazione che si limitano a servizi “da camera”: apparecchiare, sparecchiare, rifare i letti.

Ed è così che – nel giro di vent’anni – uno Stato diventa, da potenza industriale, a paese da affittacamere.

Se la retorica sul turismo provoca disastri sul lungo periodo, i risultati di quella dei beni culturali intesi come “petrolio di questo paese” è sotto gli occhi di tutti.

Fomentati da questa fantasticheria, si è venuto a formare un esercito di disoccupati (o male-occupati) che – in assenza di mecenati privati – possono essere assorbiti (lavorativamente parlando) esclusivamente dal settore pubblico. Il quale – a sua volta – trae le (scarse) risorse per pagare loro lo stipendio attraverso la tassazione dei ceti produttivi. Questi ultimi, a loro volta, invece di essere incentivati nella loro opera produttiva, vengono letteralmente vessati da una quantità di adempimenti burocratici che è letteralmente impossibile elencarli tutti.

Ma non tutto è perduto. Esistono esempi che infondono speranza nel futuro, ed uno di questi è rappresentato da due ragazzi marsalesi di cui abbiamo parlato qualche anno fa: Giorgio Maggio e Vincenzo Pecorella.

Con poche chiacchiere e tanta voglia di lavorare, hanno creato un cantiere navale – Lilybaeum Yachts – che nel giro di pochi anni esporta le sue imbarcazioni in tutto il mondo.

Ecco di cosa dovremmo parlare: di impresa, di produzione, di creazione di ricchezza tangibile, materiale. Di cose che possono essere viste e toccate con mano. Ecco cosa occorre fare: ridimensionare il peso della “cultura” e usarla per ciò che è, ossia un modo per approcciare la vita, e non il fine della vita.

Perché, alla fin dei conti, se la cultura è il patrimonio di ricette conservate nell’enciclopedia gastronomica, è anche vero che senza il contadino che semina la verdura e il macellaio che ci fornisce i filetti, sapere come si prepara una carbonara rimane solo un esercizio virtuale.